Compositore, cantante e musicista. Una personalità poliedrica, profondamente legato alla sua città, Ragusa, anche se in alcuni momenti della sua vita ha vissuto fuori per cercare spunti importanti da tradurre in note, parole e melodie. Nicola Randone è l’anima della band ‘Randone’ che ha realizzato importanti composizioni che, per loro stessa definizione, non hanno una collocazione in una semplice definizione, ma spaziano eludendo confini ed etichette. Oggi quarantenne, Nicola ha vissuto importanti anni di sviluppo, crescita ed evoluzione personale, professionale e musicale. Al suo genio creativo, offriamo, dunque, la possibilità di rivivere un amarcord di ciò che la sua vita gli ha fatto conoscere.
Di Sabrina Gariddi
Se tornassi indietro di vent’anni, quale la personale battaglia che ti intesteresti affinché a Ragusa fosse stato realizzato quel qualcosa?
Buona parte di noi ragusani (specie gli artisti) abbiamo sempre avuto la cattiva abitudine di lamentarci della nostra città, più di quanto non si faccia altrove, accusando la politica d’essere indifferente, i gestori di locali e teatri di guardare solo al portafoglio e, per buona pace di entrambi, i nostri concittadini d’essere passivi ed accondiscendenti. Vent’anni fa Ragusa pativa sicuramente la mancanza di luoghi preposti alla cultura… ecco, se potessi tornare indietro mi intesterei “Spazio Musica” per vantarmi d’essere stato il primo ad offrire una casa ed insieme una piazza a tutti i musicisti ragusani, perché la mancanza di stimoli e confronto è una delle cause di mortalità più frequenti legata alla creatività individuale.
“Oggi non è che un giorno qualunque di tutti i giorni che verranno. Ma quello che accadrà in tutti i giorni che verranno può dipendere da quello che farai tu oggi”. (Per chi suona la campana – E. Hemingway). In quale foglio ti piacerebbe apporre il tuo nome, oggi?
Ho sempre fatto fatica a redigere classifiche: il giorno più felice, la ragazza che più mi ha fatto battere il cuore, il CD preferito… molte volte ho creduto di poter dare una precisa direzione alla mia vita scoprendo che, al di là delle scelte, siamo sempre preda di quella terribile maledizione ch’è l’imprevedibile ed analogico evolversi degli eventi. Più o meno all’età di 30 anni ho detto di no ad un lavoro in banca, probabilmente grazie a quel giorno riesco a giacere in tenera contemplazione dei miei 7 album (anche se non so quanti soldi mi entreranno per le bollette del prossimo mese); qualche anno prima ho rinunciato all’idea di trasferirmi a Londra, probabilmente, a causa di quel giorno, la mia musica è relegata a quell’antro oscuro e precario chiamato: genere di nicchia. Adesso non mi dilungherò su tutte le possibili “sliding doors” legate al mio destino perchè credo che la cosa più sana che oggi riesca a fare è continuare (anche se con più fatica) ad apporre il mio nome su tutti i giorni a venire e ad ogni sorgere del sole.
Fare musica quando eri al liceo e muovevi i primi passi come musicista, e guardare ciò che oggi ti circonda. Similitudini e differenze?
O beh, questa è facile… allora si faceva musica dentro i garage, con i vicini che protestavano quando la sera dimenticavi che era già passata la mezzanotte ed il batterista che picchiava come un diavolo sui suoi tamburi mentre tu gli servivi il miglior riff di chitarra di cui eri capace. Oggi molti suonano nelle sale prove, con gli occhi sull’orologio ed i cellulari che squillano in pieno pezzo: quelli bravi hanno anche 10 gruppi e, quando sono troppo impegnati, mandano al loro posto una base registrata. Certo, è anche vero che la tecnica di un adolescente avrebbe fatto appendere lo strumento al chiodo a chiunque, all’epoca, si sentisse un virtuoso quindi, quello che noi facevamo nella “practice room”, in realtà oramai si può fare a casa, con sequencer e alla meno peggio con le basi musicali. Difficile spiegare ai ragazzi cosa significava suonare in una stanza umida, con le pareti fatiscenti e un impianto elettrico che faceva scintille sui microfoni (nel vero senso del termine), d’altra parte questa generazione partorisce fenomeni che vanno ben oltre le scassate esibizioni di cui eravamo capaci nei ruggenti anni 90 della Ragusa metallara.
Quale il primo concerto a cui hai assistito da adolescente che ti ha emozionato?
Non c’è concerto che ricordi con maggiore affetto e nostalgia di quello che il Banco ha tenuto più di vent’anni fa a Ragusa Ibla. Ricordo l’attesa coi migliori amici di allora, l’incontro nel pomeriggio con Francesco Di Giacomo e la lunga chiacchierata sotto gli alberi della villa dove io, curioso, gli chiedevo chi fosse il Mago nel giardino. La musica ha una magia che non tutti riescono a cogliere, molti lasciano che faccia da sfondo alla loro quotidianità senza capire che è come sfogliare un libro senza fermarsi sulle parole, come passare distratti davanti ad un quadro senza coglierne il significato più profondo. Un’artista vero (e non certo i mestieranti di oggi) riesce a trasferire la propria anima nella sua musica, se ha genio riesce ad arrivare a tutti, ma non c’è piacere più grande di riuscire a raggiungere l’anima dell’artista ed, in quel concerto al giardino per la festa dell’Unità, credo di aver compreso in maniera totale quel tipo di esperienza riuscendo poi a trasferire il metodo anche nel semplice ascolto di un disco. Il Banco non è stato solo il mio primo concerto, mi ha fatto anche da scuola all’anima e probabilmente mi ha reso, creativamente, ciò che sono.
Cosa cambieresti e cosa rimarrebbe immutato nella tua vita?
Vorrei non aver mai detto alla prima intervista su Radio Rai che ero un talebano del prog; spero che non mi chiedano di scrivere il secondo atto di “Hybla” considerato che, dopo il terremoto, le figure storiche sarebbero meglio descritte in un album di musica popolare piuttosto che di prog; vorrei che Maria non tentasse più di convincermi che Nemo (il mio gatto) un giorno morirà e che lo stesso mantenga la condizione d’immortale concessagli dalla giovane strega che un tempo me lo affidò; vorrei non aver avuto troppe cose da fare quando il mio caro amico Annibale voleva che lo andassi a trovare e vorrei che la forza di fare altri cento cammini verso Santiago non si spegnesse mai…
Il ricordo più bello che da ragazzo ti ha fatto diventare uomo?
Non sono del tutto sicuro che ci sia un bel ricordo che mi ha fatto diventare uomo, a meno che essere aggredito a Catania, in pieno centro, da un poliziotto in borghese dei Falchi, scambiato per chissà quale pregiudicato, costretto a raggiungere a calci la questura con la paura che, se avessi protestato, mi avrebbe messo una busta di cocaina in tasca (minaccia tra l’altro paventatami all’orecchio), umiliato davanti agli altri sbirri (e già, qui ci sta) che ripetevano solo “sta zitto delinquente” perché cercavo di spiegargli che doveva trattarsi di uno sbaglio e poi, dopo aver chiarito che ero un semplice musicista che stava andando a fare la sua lezione al professionale di Giarre, sentirgli dire: “la prossima volta che mi vedi abbassa gli occhi o salutami con un – buon giorno signor tenente-”… uscire da lì e sentirmi totalmente piegato…ecco, se tutto questo possa ricondursi ad un ricordo per l’essere diventato uomo (e cioè aver smesso di credere come un bambino che la polizia aiuta sempre i più deboli)… è un ricordo di merda… altri purtroppo non me ne vengono in mente.
Amarcord con Nicola Randone – Free Time 46 – Scarica il PDF.